L'8 SETTEMBRE 1943 DEL GENERALE FRANCESCO GIANGRECO

Il giornalista Domenico Bartoli, già corrispondente di guerra in Africa settentrionale nel 1941-42 e poi di “La Stampa” e del “Corriere della Sera” aveva interesse a ricostruire alcuni aspetti dell’8 settembre 1943. Gli venne consigliato dal generale Musco di contattare il generale avolese in pensione Francesco Giangreco, definito “come uno dei pochi superstiti del campo di concentramento di Flossenbürg e vicino di cella dell’ammiraglio Canaris” e così fece Bartoli, che il 17 agosto del 1963 gli scrisse da Roma.
Il giornalista chiese al Giangreco:

floss.Potrebbe avere la cortesia di farmi sapere 1) In quali circostanze venne catturato e per quali ragioni fu condannato a questo trattamento così duro, mentre la maggior parte degli ufficiali e delle truppe fu confinata in campi di prigionia presso a poco normali? 2) Com’è riuscito a sopravvivere a quella ingiusta e inumana prigionia? E naturalmente mi sarà preziosa ogni altra notizia che lei creda opportuno farmi sapere su questo tragico avvenimento.
Il generale in quel mese di agosto del 1967 si trovava ad Avola e così gli rispose:
campoIllustre Bartoli, nel 1945 poco dopo il mio ritorno dall’internamento in Germania, un mio amico ora morto (il col. Adabbo) mi chiese le notizie che Ella mi chiede, per conto di tal prof. Pace che doveva curare una pubblicazione in materia. Scrissi un fascicolo abbastanza particolareggiato che commosse il caro Adabbo e che avrebbe potuto essere materia di un libro.
… La vita nel "Konzentrationslager" di Flossenbürg era vita di terrore; e fra gli ospiti di esso regnava profonda diffidenza , anche perché non mancavano gli agenti provocatori (un giorno un internato tedesco – un ergastolano che aveva ucciso i genitori – mi chiese se, “insomma”, io fossi per Mussolini e il Fascismo oppure per Badoglio e la Monarchia. Ed io me la cavai salomonicamente rispondendo: «Sono contro Mussolini, perché ha fatto una guerra che non ha saputo preparare; contro Badoglio, perché ha fatto una pace che non ha saputo preparare; e contro il re, che ha consentito l’una e l’altra cosa». Non ero vicino di cella dell’ammiraglio Canaris, per il semplice fatto che, come per la quasi totalità degli internati, stavo in uno di quei “block” che – destinati a contenere 150 galeotti in tempo di pace – ospitavano poi 1000 e più internati politici.
Della presenza e della fine di fine di Canaris (strozzato con le mani dalle SS) si sentì sussurrare più tardi, con gran mistero e circospezione, così come tempo prima si era sussurrato che era stato sgombrato il postribolo destinato alle SS, per alloggiarvi – per qualche giorno – re Leopoldo dei Belgi e alcuni suoi familiari.

Il 5 settembre 1943 comandavo il "Settore Knin" (la veneta Tenin) a 100 km da Zara, verso il Dinara. Vi comandavo un "assortimento" di truppe italiana e un battaglione di "Domobrani" croati (che però potevo impegare solo in operazioni fuori del Settore), oltre ad una sedicente "Divisione del Dinara", agglomerato di volontari (Cetnici) serbi e montenegrini comandati dal "Pope Juic", che stavano fuori dalle mura e che erano nemici inconciliabili dei Titini e dei Croati, oltre che dei Tedeschi. A completare il quadro "balcanico", aggiungo che i Cetnici prendevano anche ordini da... Londra, dove risiedeva il loro generale Mihailovic, fatto impiccare poi – com'è noto – da Tito.
Dagli informatori cetnici appresi che unità germaniche scendevano da nord (Zagabria?) verso Knin, unico punto obbligato di passaggio verso sud attraverso il fiume Krka. Chiesi direttive al Comando del Corpo d'Armata di Zara (gen. Spigo) sul contegno da tenere qualora i Tedeschi chiedessero di attraversare Knin. Mi fu risposto (sgranai bene gli occhi) quasi testualmente così: "Farli passare, se lo chiedono con le buone maniere; in caso contrario, rispondere alla forza con la forza, EVITANDO SPARGIMENTO DI SANGUE".
Io, che già da molti anni mi dilettavo di enigmistica, pensai che neanche Edipo avrebbe saputo risolvere quel rompicapo. Ma è storico!
Il giorno 6 le truppe germaniche (Una Divisione "Cacciatori", mi disse il suo comandante) attraversarono Knin diretta, ufficialmente, a Drvar per – dicevano – presidiare quelle miniere di bauxite. In realtà si mantennero in buona parte vicine a Knin, mentre una considerevole aliquota – col consenso del nostro Corpo d'armata – era andata a piazzarsi nell'aeroporto di Zemonico, del vecchio campo trincerato di Zara.
L'8 sera appresi, dalla radio croata (Knin era sede di Prefettura del cosiddetto Stato Libero di Croazia) che l'Italia aveva firmato l'armistizio. Incredulo e stupito, chiesi chiarimenti al C. d'A. di Zara, per ponte radio. Mi si rispose che non ne sapevano nulla e che avrebbero chiesto notizie al Comando della 2ª Armata (che però sembra si fosse già "squagliata"). Chiesi peraltro – se la notizia fosse confermata – l'autorizzazione a sgombrare la notte stessa Knin, frapponendo il Krka tra me e i Tedeschi, a raccogliere i piccoli presidi sparsi in funzione antititina e concentrare le forze nel campo trincerato di Zara. Mi fu risposto di non prendere iniziative senza gli ordine dell'Armata.
...
Il mattino del 9, dinanzi le nostre postazioni verso Drvar si presentò un gruppo di ufficiali germanici, chiedendo di conferire con me; autorizzai per telefono l'ufficiale che comandava il nostro posto a farli proseguire. Come si siano svolti i fatti da questo momento in poi, non mi è stato possibile ricostruire esattamente
...
Ammetto di essere stato sorpreso dagli eventi, ma è evidente che sono stato soprattutto tradito: e più dall'alto che dal basso. È arcinoto l'assoluto segreto in cui Badoglio avvolse l'operazione di "sganciamento" dai Tedeschi. Questo segreto fu reso, dalla paura sua e dei Comandanti più elevati, tanto, tanto ermetico da nascondere la notizia dell'armistizio ai comandanti più esposti, anche se Generali, come nel caso mio, mentre è chiaro – anchl'e solo da quanto ho sopra esposto – che i Tedeschi ne erano già edotti: e anche solo per questo messi in condizione di superiorità.
Dopo qualche giorno, assieme al generale Paolo Grimaldi (portato a Knin da Sebenico, dove era stato catturato), fui trasferito in Germania e poi nella località di Schokken (Posnania), dove erano stati concentrati circa 200 generali italiani prigionieri, fra i quali i generali d'armata Geloso e Gariboldi, e alcuni ammiragli (tra questi ultimi, gli ammiragli Campioni e Nascherpa, fucilati poi a Verona).
Da alcune "voci" incontrollabili sembra che Grimaldi ed io avremmo dovuto essere fucilati a Spalato, assieme ai generali Pelligra e Cigala Fulgosi e ad una cinquantina di altri ufficiali superiori; ma l'ordine, proveniente da Himmler, sarebbe arrivato laggiù dopo il nostro "smistamento" sulla Posnania. Secondo tali voci, raccolte poi a Flossenbürg, la prigionieripratica relativa a Grimaldi e a me sarebbe dispersa in un bombardamento della Centrale di Polizia di Berlino e ricostruita dopo circa un anno, quando la situazione politico-militare tedesca era diventata disperata. Ciò spiegherebbe perché solo dopo un anno di "internameno" con gli altri generali italiani a Schokken e trasferiti in stato di arresto a Posen (fine settembre 1944) in celle separate – privati della qualifica di "militari" e assegnati a quella di "detenuti politici" – fummo trasferiti nelle carceri di Polizia di Berlino e successivamente (sempre ammanettati e promiscuamente con delinquenti comuni) in altre carceri – Lipsia, Halle, Hof, ecc... e infine a quelle di Widen – finché il 5 novembre fummo internati nel "Konzenntrationlager" di Flossenbürg.
Rinunzio a descrivere gli orrori di quel campo, simili – del resto – a quelli descritti da tanti altri. Le dirò solo delle prime ore.
Arrivati di sera tardi in 64 (di cui solo noi due italiani), fummo introdotti nei locali delle caldaie della lavanderia del campo e poi, finito il coprifuoco alle 4 del mattino, in un grande locale adibito a docce, dove fummo denudati, tosati e rasati per tutto il corpo e, mentre le grandi finestre erano aperte e fuori nevicava, sottoposti a getti d'acqua alternativamente calda e fredda. Alle ore 10, quando questo supplizio ebbe termine, eravamo ridotti a 30: Più della metà erano morti di collasso cardiaco. Continuavano le scudisciate che gli aguzzini infliggevano a quelli che si stringevano gli uni agli altri cercando di scaldarsi come pecore allo stazzo.

Orribile e incredibile: quegli aguzzini erano anch'essi internati come noi (quasi tutti russi e polacchi) che si prestavano alla parte di manigoldo per entrare nelle grazie delle SS e averne per sé un trattamento meno disumano.
Per il resto, fame, percosse, freddo e durissime fatiche spiegano l'enorme mortalità (sembra superiore al 95%). Su circa 12.000 internati, gli Italiani erano 300 o poco più. I vuoti venivano periodicamente colmati con nuovi contingenti provenienti dai rastrellamenti eseguiti nelle vie e dai prelevamenti nelle carceri dei Paesi occupati.
Come siamo sopravvissuti Grimaldi ed io, non so dirlo. Certo, ci ha sostenuto molto il morale e la "volontà" di tornare. La mortalità era palesemente maggiore tra i giovani (c'erano due "blocks" destinati a bambini e ragazzi fino ai 14-15 anni, quasi tutti ebrei), forse perché maggiormente bisognosi, trovandosi nell'età dello sviluppo.
...
pietreGrimaldi e io, dopo un paio di settimane di lavoro in una cava di pietre, eravamo stati adibiti a... ricavare pezze da rattoppo dagli stracci ritirati ai morti. Il lavoro si svolgeva in un magazzino che conteneva il vestiario in ottime condizioni sottratto agli internati a mano a mano che arrivavano. Qualche volta mi riuscì di "rubare" qualche capo di pregio, trafugandolo sotto i cenci di cui ero vestito, col pericolo – se scoperto – di essere impiccato la sera stessa. Lo passavo ad un tale Minnalà, siracusano e ancora vivente, il quale – poiché lavorava fuori del campo – riusciva a barattare la roba con qualche patata. Beninteso, anch'egli correva il rischio d'essere impiccato immediatamente. Malgrado codesti "arrangiamenti", all'atto della liberazione (avvenuta in modo romanzesco, che meriterebbe più ampio racconto) Grimaldi e io eravamo ridotti intorno a 46 chili di peso.
Da parecchi anni non mi tornano in sogno scene di quella vita da incubo. Ma se padre Dante ne avesse avuto sentore, avrebbe aggiunta al suo "Inferno" un'altra bolgia, certo la più feroce, non fosse che per il fatto che era abitata da innocenti...

Francesco Giangreco

Giangreco
Francesco Giangreco decorato di:

Cavaliere della Corona d'Italia
n. 2 medaglie d'argento al VM
n. 1 Croce al VM
Croce al merito di guerra
Campagna di Libia
Croce per anzianità di servizio
Guerra Italo-Austriaca 1915-16-17-18
Interalleata della vittoria
Unità d'Italia 1918

FOTO DI MARIA ANTONIA FORTE

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Ringraziamo la poetessa di "Libri di-versi in diversi libri" Maria Antonia Forte per averci supportato con le sue fotografie.

Francesco Urso

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25 APRILE 2014
AVOLA RICORDA L'8 SETTEMBRE
DEL GENERALE GIANGRECO

L'8 SETTEMBRE 1943 DEL GENERALE FRANCESCO GIANGRECO
nell'intervento di Francesco Urso, coordinatore di "Avola in laboratorio"

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